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a cura di Cristina Miele

MERCEOLOGIA ALIMENTI


      La parola dessert è il participio passato del verbo francese "desservir" che significa smettere di servire, poiché, al momento del dessert, come vuole il codice della tavola, deve essere tolto tutto ciò che ha consentito il pasto vero e proprio. Questo termine è entrato in uso solo in tempi recenti.
      Infatti, intorno al '700 circa, il dolce non era separato dal salato e ciò lo dimostrano le usanze della cucina orientale oppure antiche reminiscenze quali la cucina del nord o di diverse cucine paesane che ancora propongono il pasticcio di maccheroni in crosta dolce, il baccalà con uvetta e pinoli, i bolliti con la mostarda dolce di tipo modenese o mantovano, i tortelli di zucca con l'amaretto ricoperti di zucchero e cannella.

La pasticceria è l'unica scienza di cucina che si definisce arte:
   - richiede la fantasia e la capacità di accostare ingredienti
   - richiede l'applicazione di un esatto dosaggio degli ingredienti

      Per dolce si intende qualcosa che abbia un contenuto zuccherino, ovvero di saccarosio, preminente.
      Mentre la tendenza dolce è tipica dei carboidrati e affinché venga pulita necessita di una contrapposizione (si richiede che il vino in abbinamento abbia un po' di acidità e qualche elemento duro per contrastare, come la sapidità magari rinforzata dall'effervescenza), la dolcezza sta ad indicare la presenza dello zucchero e viene compensata per similitudine affinché l'abbinamento sia armonico.
Il dolce è un abbandono che esige che nulla vada a contrastarlo.
Possono essere chiamati desserts tanto le frittelle di carnevale, di mele, di tradizioni più antiche, quanto i dolci più elaborati.

I dolci hanno come elemento comune la presenza dello zucchero
                                                                                                                                                                  Lo zucchero fece il suo primo ingresso sulle tavole dei potenti solo intorno al 1200 e rimase per secoli un bene dal costo inaccessibile al ceto medio in quanto poteva ottenersi solamente dalla canna da zucchero. Solo intorno alla fine del '700 un chimico prussiano trovò il modo di estrarre chimicamente lo zucchero dalle barbabietole.
      L'estrazione segue una prima fase di pulitura, di lavaggio e di separazione delle radici dal fusto. Le radici delle barbabietole vengono tagliate in sottili fettucce che, poste in acqua calda, permettono l'estrazione dello zucchero che si presenta sotto forma di liquido giallastro prima dei vari trattamenti che ne separeranno le impurità.
      L'estrazione dello zucchero dalla canna da zucchero avviene invece tramite lo schiacciamento della canna stessa, dalle cui fibre si estrae il succo.

Un altro elemento comune nella preparazione dei dolci è la farina.

      Si definisce tale lo sfarinato ottenuto dalla macinazione del grano tenero e può essere di forza oppure debole.
      La farina di forza si utilizza per la lavorazione di pasta lievitata, una pasta di base, con la quale si ottiene il panettone, il pandoro, la colomba, il croissant.
      Si ottiene da un impasto che viene sottoposto ad un lento processo di fermentazione, la cui durata può protrarsi anche 24 ore come nel caso del panettone. Dal punto di vista nutrizionale questi prodotti, otre a fornire dei principi nutritivi essenziali, risultano anche particolarmente digeribili a causa della parziale predigestione dell'amido da parte dei lieviti.

      La farina debole si utilizza per la preparazione dei dolci fritti (dolci legati a particolari ricorrenze quali Carnevale, Natale, Pasqua), il cui impasto non viene cotto in forno ma fritto per immersione in olio o strutto, semplici o farciti di crema o marmellata e poi ricoperti con zucchero semolato o a velo. Altri utilizzi di questa farina sono per la lavorazione di un'altra pasta di base come la pasta frolla, che non necessita la lievitazione.
      Un buon metodo per ottenere dei buoni risultati nella lavorazione della farina è quella di saggiarne la consistenza con una manciata.
      Se la farina si attacca al palmo della mano vuol dire che ha molta umidità e quindi dovrà essere trattata in un certo modo ed aggiungere meno elementi liquidi.
      Se, al contrario, la farina risulta secca, occorre aggiungere più liquidi per raggiungere quella elasticità desiderata nell'impasto per fare i dolci.
      L'elasticità è dovuta ad un componente chiamato glutine, che ha la capacità di essere elastico e plastico allo stesso tempo. Si ottiene dalla trasformazione delle proteine . Non si pensi però che l'aumento del glutine vada di pari passo con l'avanzare della lavorazione. C'è una curva che infatti aumenta, ma poi ad un certo punto si ferma: questo momento si definisce rottura del glutine, in quanto l'eccessiva lavorazione porta ad uno sfaldamento della pasta.

      Altre paste di base sono la pasta sfoglia, che si prepara con la farina di forza e l'impasto ha la particolarità di essere piegato più volte su se stesso formando delle pieghe, il Pan di Spagna, il cui impasto è molto soffice e viene utilizzato per essere farcito con creme, la pasta brisée, il cui impasto è friabile e simile alla pasta frolla, la pasta di mandorle, la pasta "choux", che poi è l'impasto che si utilizza per i bignè, la meringa.


I vini in abbinamento
      Essendo diverse le sensazioni che ciascun dolce può dare, non è possibile dare una definizione generica per vino da dessert.

Una cosa è certa: con un dolce va assolutamente abbinato un vino dolce e non un vino secco!

      Quindi, anche se pensiamo di fare un figurone, sarebbe opportuno riservare le nostre bollicine (Metodo Classico o Champagne) per qualcosa di diverso...

      L'abbinamento ipotetico di un vino con il panettone ed il pandoro esclude a priori un Vin Santo oppure un Passito, poiché la struttura molto lievitata data dalla farina di forza, richiede molta acqua. Sarà quindi necessario abbinare vini meno strutturati come il Moscato d'Asti o un Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene extra-dry, meglio se Superiore di Cartizze. Il panettone è un dolce spugnoso che necessita quindi di liquido.
      Al contrario i vini passiti li troviamo particolarmente indicati per preparazioni compatte e succulente come i biscotti della mattonella (cantucci/tozzetti) e il panforte, ma anche per un millefoglie.      Una crostata ai frutti di bosco vedrà un corretto abbinamento con un Brachetto d'Acqui o una Vernaccia dolce di Serrapetrona, vini freschi e poco tannici.
      La complessità di alcuni vini é tale che vengono definiti da meditazione, per i quali non solo è poco indicato ma addirittura quasi dannoso proporre l'abbinamento con un dolce. Sono vini che meriterebbero di essere assaporati da soli perché tale è il trionfo di fiori, frutta, di elementi dolci della canditura, di spezie, che sarebbe bene non creare delle interferenze. Se proprio così deve essere, che siano le più semplici possibili, ci riferiamo alla "petie patisserie":
- i fondenti, dolciumi a base di zucchero con impasto morbido
- i confetti, hanno come base la mandorla che può essere pelata o da pelare, oppure a base di arachidi (più economici) o ripieni al cioccolato
- i frutti canditi
- il torrone
- i croccanti
- le caramelle

      Per i gelati ci sentiamo di sconsigliare l'abbinamento con un qualsiasi vino in quanto la bassa temperatura anestetizza per un po' le papille gustative, ed impedisce di apprezzare il vino in degustazione.


Il cacao e il cioccolato
                  La pianta del cacao, originaria delle foreste equatoriali dell'Amazzonia, ha un tronco molto largo alla base e può anche superare i 12 metri d'altezza. I suoi fiori, bellissimi ciuffi rossi, lasciano il posto a frutti simili a grosse mandorle con un diametro di 10 cm ed una lunghezza di circa 25, all'interno dei quali si trovano dei semi allungati (o fave).
      Liberati dalla polpa bianca e vischiosa, i semi vengono fatti fermentare e, dopo il lavaggio per eliminare residui di polpa, vengono fatti essiccare al sole oppure artificialmente. Seguono la tostatura e la sgusciatura, dopodiché il cacao viene sciolto con soda per eliminare gli acidi.
      Il burro di cacao, necessario per la produzione di cioccolato si ottiene dalla macinazione e pressione a caldo della pasta di cacao essiccata. Trattasi di un liquido giallognolo che solidifica alla temperatura di 35°C. circa.
      I primi a coltivare il cacao sembra siano stati i Maya, popolo di agricoltori che aveva però raggiunto conoscenze in diverse scienze grazie al loro elevato grado di civilizzazione. Oltre ad essere un alimento, per i Maya il cioccolato era anche una moneta. Con gli Atzechi,, il cui sistema monetario era appunto basato sulle fave di cacao, questa pianta entrò definitivamente nella storia.
      Furono infatti gli Atzechi ad offrire a Cristoforo Colombo durante il suo quarto viaggio, oltre a tessuti e cuoio lavorato, la loro moneta, dalla quale questo popolo estraeva una bevanda: il cacao.
      Alcune di queste mandorle ritornarono in Spagna con Colombo ma la vera conoscenza della pianta si ebbe pochi anni dopo, intorno al 1520, con il rientro in Spagna di Hérnan Cortéz dal Messico.
      Durante il suo soggiorno, venne accolto con grandi onori e ricevette in dono un'intera piantagione di cacao. Dai racconti dei personaggi al suo seguito , pare che l'albero del cacao fosse ritenuto simbolo di fortuna, sia per il fatto che i suoi frutti fossero delle vere e proprie monete, e sia perché dai essi si estraeva un succo che dava forza e vigore. Erano diverse quindi le tradizioni legate alla raccolta di questi frutti, spesso associati ai simboli degli dei. Delle vere e proprie cerimonie avevano luogo in occasione della raccolta, preceduta da tredici giorni di castità per i giovani.
      L'Italia fu il secondo paese europeo, dopo la Spagna, a conoscere il cacao, anche se inizialmente, rimase ristretto alle corti, dove il compito di preparare la cioccolata era svolto da cameriere speciali, chiamate cioccolatiere, che la moda richiedeva venissero appunto dalla Spagna.
      La preparazione della cioccolata non era un compito semplice infatti richiedeva esperienza. Ciò contribuì alla nascita di veri e propri locali di degustazione della cioccolata.
      Fino al XVII secolo, questa veniva consumata quasi esclusivamente in tazza, come bevanda, e veniva preparata con acqua, cacao, zucchero, vaniglia o cannella ed altre spezie.
      Le maggiori quantità venivano consumate in Piemonte, e Torino fu infatti, fino ai primi del ns.secolo, il maggior centro di produzione. Con il blocco napoleonico, nel 1806, alle difficoltà del rifornimento del cacao, si aggiungeva il fatto che il suo prezzo era salito alle stelle. A Torino trovarono dunque il modo di mescolarlo alle nocciole Piemontesi che, tritate, venivano impastate insieme al cacao, dando origine ad un nuovo prodotto.
      Alla mostra "Torino industria" venne presentato questo cioccolatino nel 1866 che prese il nome dalla maschera torinese "Gianduia" e che, dall'anno successivo venne chiamato "Gianduiotto".

Cosa abbiniamo?
      Oggi questo cioccolatino trova un ottimo abbinamento con il Barolo Chinato, vino meno indicato con il cioccolato puro perché la china è un elemento amaricante che va a sovrapporsi all'amaro del cioccolato, non risultando proprio piacevole.
      Il cioccolato in effetti merita un discorso a parte rispetto ad altri dolci. La succulenza e la tendenza amarognola raggiungono tali livelli che il vino in abbinamento dovrà sostenerle con un'alcolicità ed una morbidezza adeguate. Al cioccolato, che è ricco di profumi e molto persistente, comunemente si è portati ad abbinare un distillato, un'acquavite di canna da zucchero come il rum, specialmente se elaborato con il metodo charantais del Cognac.
      E' molto indicato anche un Porto (meglio se Vintage, altrimenti un Tawny di pregio oppure un LBV), ma lo sono anche il Pineau de Charente, l'ALA (antico liquore amarascato), il Sagrantino di Montefalco (passito tradizionale), il Recioto della Valpolicella tradizionale, il Moscato di Scanzo.

Classificazioni
      In ogni caso difficilmente ci si trova davanti al cioccolato puro. Per cioccolato puro si intende infatti la presenza esclusiva di burro di cacao che fonde a 37°C. ed è molto integrabile con tutti gli altri ingredienti in quanto è la sua natura quella di essere in sintesi con il cioccolato. In base al contenuto di cacao e di burro di cacao, il cioccolato può essere classificato come segue:
- cioccolato fondente comune, che contiene il 30% di cacao ed il 18% di burro di cacao misurato sulla sostanza secca
- cioccolato fondente extra, che contiene il 45% di cacao ed il 28% di burro di cacao misurato sulla sostanza secca
- cioccolato fondente di copertura, il burro di cacao non deve essere inferiore al 31%; viene utilizzato in pasticceria

Il cioccolato al latte può essere classificato come segue:
- cioccolato al latte
- cioccolato al latte magro
- cioccolato bianco, di ottiene con latte, zucchero non oltre il 55% e burro di cacao, minimo 20%.

      Le proprietà rasseneranti del cioccolato, in alcuni casi addirittura afrodisiache, pare siano in qualche modo fondate. C'è un alcaloide nel cioccolato che si chiama teobromina - analogo alla teina e alla caffeina - ed ha proprietà blandamente energetiche ed euforizzanti.



Il miele
      Sin dall'epoca dei romani, il miele veniva utilizzato nella gastronomia come correttore di piatti di eccessiva sapidità oppure come condimento.
      Durante il Medievo lo zucchero fece il suo ingresso sulle tavole dei nobili e, nonostante il suo prezzo molto elevato, questo fece sì che per diversi anni il miele rimase il surrogato povero anche perché non aveva quel fascino esotico che il suo lussuoso rivale rappresentava.
      L'uso di quest'ultimo trovava riscontro soprattutto per esigenze di natura estetica nella pasticceria. Era infatti facilmente modellabile e quindi utilizzato per la preparazione di glasse e marzapani.
      Al miele non rimase quindi che mantenere il suo posto nella pasticceria popolare, dove veniva utilizzato come base in un'infinita varietà di dolci.
      Tornò a trionfare nella cucina aristocratica intorno al XIV secolo, con l'affermarsi del gusto dell'agrodolce come moda alimentare.
      Durante l'epoca medievale, tipico era anche l'uso del miele per realizzare bevande.
      L'idromele, bevanda di acqua e miele fermentati, di gradazione alcolica non eccessiva, era molto diffuso tra le popolazioni del nord.
      Il miele veniva inoltre utilizzato sia come dolcificante che per favorire la fermentazione di vino, birra,sidro e liquori.
      Fu proprio questo suo diffuso utilizzo a far si che l'apicoltura avesse un posto fondamentale nel sistema produttivo agrario durante tutto il Medioevo, senza considerare l'importanza che ebbero ad esempio anche la cera per l'illuminazione e per il culto.
      Il metodo di raccolta del miele delle popolazioni occidentali era diverso da quello dei paesi dell'est. Mentre i primi praticavano l'abbatimento delle colonie e la successiva razzia dei loro prodotti, quest'ultimi sfruttavano il sistema cosiddetto "apicoltura forestale", la cui tecnica consisteva nell'intagliare le piante che ospitavano gli sciami selvatici per poi rivendicare un diritto di proprietà sugli sciami stessi. L'apicoltore inoltre, utilizzava dei funi che allontanavano la colonia di api e che gli permettevano di impossessarsi del favo colmo di miele.
      Questo metodo vide affiancarsi con il tempo, in tutta Europa, quello della domesticazione delle api in arnie, praticata in prossimità delle abitazioni. E' questo il metodo tutt'oggi in uso per la produzione del miele.
      Quest'ultimo può essere vergine integrale se si ottiene direttamente dal favo, senza subire alcun trattamento chimico-fisico. Tale qualità prevede che sia apposta sulla confezione la data di produzione ed il tempo minimo di conservazione del prodotto.
Oppure può essere pastorizzato, ossia trattato termicamente per renderlo più limpido, più stabile ed impedirne la fermentazione.

      Diversi i fattori, quali i fiori., la stagione di raccolta, le varie combinazioni di flora dei diversi ambienti, contribuiscono a far sì che vi siamo moltissime varietà di miele, ognuna caratterizzata da particolari proprietà:
  • il colore, che può essere bianco, trasparente oppure scuro, dipende dal tipo di fiore da cui si ottiene il nettare;
  • la consistenza dipende dal contenuto di glucosio e fruttosio e dall'invecchiamento;
  • l'odore dipende dal tipo di pianta da cui proviene il miele ed il sapore dal tipo di flora da cui il nettare viene estratto.
      Oltre il miele vi sono diversi altri prodotti dell'alveare che sono ritenuti terapeutici:
  • il polline, è l'elemento germinale maschile dei fiori che le api "trasportano" nell'alveare; essiccato, il polline, viene venduto in grani ed è ritenuto un prodotto particolarmente energetico;
  • la pappa reale, sostanza prodotta dalle api nutrici, è un prodotto ricco di principi nutritivi
  • i propoli, utilizzati dalle api per restringere l'ingresso dell'alveare, sono delle resine e sostanze balsamiche, diffusi per uso dermatologico.



Indietro/Back Chiudi/Close Avanti/Next Stampa/Print 26-09-2009 13:38